Maratona di Ravenna (12 Novembre 2017)


Ci vuole sempre un po’ di tempo a rimettere insieme i pezzi, ma ne occorre ancora di più quando fatichiamo a vederli perché nella nostra testa eravamo talmente convinti della perfezione dell’intero da continuare a vederlo tale.
Il giorno in cui ho pensato di correre la prima maratona, mi sono posto come obbiettivo quello di raggiungere il traguardo in meno di tre ore. Ci sono riuscito al primo tentativo, convinto che per raggiungere un risultato bastasse avere un obiettivo chiaro e un lavoro strutturato, che la minuzia e la disciplina fossero la base e che il corpo fosse interessato solo alla loro solidità per potercisi appoggiare. Da quel momento ho sempre alzato l’asticella e i miglioramenti sono arrivati a ogni volta, in alcuni casi andando oltre le aspettative, come e’ accaduto alla maratona di Ferrara. A Ravenna invece, per la prima volta, non sono riuscito a realizzare un personal best e nemmeno il risultato per il quale ero sicuro di aver lavorato.  
Perché un obiettivo chiaro, un lavoro strutturato con minuzia e la disciplina non sono da soli garanzia di risultato: sono ingredienti indispensabili, ma non fanno la ricetta.  Potrei dire che è stato il freddo a vanificare il mio tentativo, o il fatto di aver sbagliato strada per 380 metri (se pensavate che certe emozioni le regalassero solo i trail sperduti, vi sbagliavate) o potrei prendermela con fastidi al gluteo destro che mi attanagliavano da qualche tempo. Ma la verita’ e’ che a tradirmi e’ stata l’incapacità di modificare le mie scelte in un contesto molto diverso da quello che avevo immaginato, al punto dall' aver desiderato di fermarmi prima della fine.
La giornata era iniziata alla grande. Ravenna sa essere suadente anche quando e' avvolta dalla nebbia, tanto che quel velo bianco da cui era coperta la mattina della gara mi e' sembrato quasi un tentativo di  voler svelare il suo fascino più lentamente. In griglia ritrovo come sempre molti amici, tanti dell’ affiatatissimo gruppo 9.92, che scalda il cuore già solo con la dose di energia che si porta sempre dietro. Fa freddo, molto. Ed io che dedico moltissimo tempo a studiare l’abbigliamento da usare in gara sono in canottiera, pantaloncini corti e manicotti, asocialmente avvolto da un significativo strato di pomata riscaldante al mentolo, sicuro di raggiungere la temperatura ideale entro pochi minuti dallo sparo. Nel frattempo indietreggio un po’ rispetto alla linea di partenza e mi mescolo ai runners della parte centrale per scongiurare il freddo. Ecco, sono quasi certo che il concetto di calore umano nasca dall’esperienza dell’attesa in griglia durante una gara invernale.
Nel mentre il clima è festoso, si esibiscono majorettes e gli Spartans danno vita a un'insolita Haka.
Ancora qualche minuto e si parte.
L'idea è quella di togliermi dal traffico, sono in prima fila e dopo che un atleta del posto mi avverte di stare attento alla seconda curva perché molto scivolosa, decido di portarmi nelle prime posizioni per far scorrere il primo chilometro. Lo corro, troppo veloce, a 3,48 Min/Km. Al terzo chilometro decido di portarmi sul teorico ritmo gara a 3,52 Min/Km. 
Il percorso cittadino è molto bello, si attraversa Ravenna passando davanti a otto monumenti patrimonio dell'Unesco e il tifo fin qui e' onnipresente, tanto che intorno al decimo chilometro mi sento incitare in Sardo: Aiò Enrico!



Al dodicesimo chilometro circa il percorso abbandona la città e si dirige verso le campagne limitrofe: qui inizia la mia corsa quasi in solitario e il freddo che pensavo avrei abbandonato comincia a farsi sentire con più insistenza, ma le gambe rispondono bene e anche il gluteo destro che mi ha dato problemi nelle ultime due settimane sembra all'improvviso tornato al top. Mentre procedo sento le incitazioni di vari amici conosciuti online: Sabri, Sandro e ancora tanti del gruppo 9.92 (ragazzi, siete formidabili!). Il tifo amico aiuta, inizio a nutrirmi e tento di tenere al secondo il mio passo. Poco dopo il sedicesimo chilometro il percorso si divide su due direzioni, una per la mezza e l'altra per la maratona. Qui sento un ragazzo in bicicletta urlarmi: "non mollare sei decimo!”.
Continuo la mia corsa in solitaria e cerco di tenere il passo, cosa che mi viene facile fino al venticinquesimo quando all'improvviso il gluteo comincia a fare capricci: non è un vero dolore, ma un fastidio che incalza sufficientemente da agitarmi e mettermi in allarme. Così al bivio successivo, come nel più sperduto dei trail, sbaglio strada. Me ne accorgo  dopo circa 200 metri, quando inverto la rotta carico di rabbia e tento di recuperare il gruppetto di circa quindici runners che mi ha superato. Inizialmente provo col mio passo ma, vedendo che la distanza diminuisce di poco, al trentesimo faccio un'altra fesseria: per ricucire lo strappo porto il passo a 3.35 Min/Km. Una mossa stupida, un errore ingenuo: l’esperienza, per quanto lunga, se non e' continuamente supportata dall'umiltà non  certezza ne sicurezza, ma rischia solo di diventare furbizia e indurre in errori ancora più grandi. L'accelerazione mi aiuta psicologicamente, ma presto presenterà il conto. Continuo al mio passo e il gruppone di cui ora faccio parte si sgrana velocemente, molti rimangono dietro ma sei atleti mi passano con facilità.
Continuo soffrendo e patendo il freddo, la temperatura non si e’ abbassata, ma il dispendio energetico e' più alto di quanto avevo preventivato e si fa sentire anche sulla termoregolazione. Benedico i manicotti e quasi mi sento in colpa per la diffidenza con cui li avevo approcciati all'inizio. Al trentacinquesimo la pancia sembra una pentola a pressione, ho forti crampi e iniziano i tremori fino a che correre diventa impossibile e allora cammino per 100 metri. Riprendo a correre pensando che la titolare della struttura dove alloggio mi ha dato appuntamento al trentaseiesimo chilometro e non voglio deluderla. Nonostante la sosta chiudo per l'ultima volta un chilometro sotto i 4,00: i chilometri 38 e 39 saranno come macigni e in quei duemila metri, per la prima volta da quando gareggio, medito di ritirarmi. Nel mentre corro sopra 4,15 Min/Km ma il gluteo ormai non risponde più e impiego quasi 4,40 minuti per fare il quarantesimo chilometro. Ma visto che i conti non mi sono mai costati energia, mi accorgo che se tengo duro, se non sforzo la gamba, se finalmente uso la testa, posso chiudere rimanendo sotto le 2 ore e 50 anche continuando con un passo a 5 Min/Km, così riprendo e vedo che la distanza tra me e chi mi precede si riduce. 
In quel momento sento le voci distanti del pubblico di Ravenna che grida il mio nome amplificarsi nella mia testa.

Sento le voci di chi da casa fa tifo per me, di chi mi ha accompagnato nei lunghissimi di agosto con 30 gradi e di chi da bambino mi ha scorrazzato in giro per la Sardegna per consentirmi di fare sport senza mai saltare un appuntamento. 
Sento chi mi ha ripetuto spesso che se una una parte del corpo duole occorre concentrarsi su ciò che funziona, e che lo stesso principio vale anche nella vita. Sento chi mi ripete continuamente di essere un trascinatore ed ora sta trascinando me. Mollare non sarebbe stato giusto.
La fatica è una realtà inevitabile, mentre la possibilità di farcela o meno è a esclusiva discrezione di ogni individuo, direbbe Murakami. 
Sento la voce dello speaker che definisce il mio arrivo. Il Garmin mi indica che sono sotto le 2h e 48' ma in quel momento mi interessa solo fermarlo. Ho la bella medaglia in mosaico al collo, barcollo, ho freddo e non capisco nulla ma mi riprendo lentamente facendo due chiacchiere con un nuovo amico: Maurizio, di Torino, che è arrivato prima di me più fresco, più forte e nonostante cio’ si complimenta con me. Basta questo a farmi riconciliare con la Maratona. 



Stavolta la "bestia" mi ha messo a tappeto ma ora, trovati i pezzi, son già in piedi. E in primavera voglio la rivincita :).


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