La (mia) Maratona di New York

Non sempre la maratona inizia sotto un gonfiabile. 
Se si e' allenatori di se stessi, l'emozione ti assale già in fase di studio della preparazione, quando provi a capire dove sei e dove puoi arrivare e traduci il tutto nella sua forma più creativa: la tabella. 
La mia ultima maratona è iniziata i primi giorni dello scorso gennaio con la mail che mi annunciava l'accesso alla New York City Marathon grazie al tempo conquistato a Ravenna. Non il mio personale e in una gara che mi ha stremato fisicamente. La notizia quindi non arrivava in un periodo facile: stavo uscendo da un infortunio e corricchiavo a malapena, ma l'idea di aver guadagnato un pettorale ambito e i mesi che avevo davanti mi stavano regalando una motivazione enorme per rimettermi in gioco e provare a riavvicinarmi ai miei livelli.
Da quel momento ogni volta che preparavo gare intermedie (tra cui la maratona del Lamone) la testa se ne andava spesso oltreoceano, si soffermava sulle gobbe dei ponti, visualizzava le onde di asfalto della Grande Mela. Sentivo crescere quel sottile senso di sfida di chi parte da una situazione di svantaggio e ne fa il suo motore. Perché non conta dove arrivi, ma e' da dove parti che fa la differenza. 
Cosi' ho iniziato a ridurre il chilometraggio, perché non potevo permettermi di sovraccaricare le gambe, ho concentrato i miei sforzi su lavori di qualità, salite e lunghissimi. Ho alternato drop di varie altezze (io, fedele innamorato del barefoot) per ridurre il carico sul tendine d'Achille. Mi sono ritagliato spazio per esercizi di core, che fino ad allora avevo stupidamente trascurato. Ho ridotto le gare al minimo indispensabile per valutare il mio stato di forma e lasciandomi ancora mille incertezze su come sarebbe andata. Ma di una cosa ero sicuro: a New York avrei messo tutto il mio impegno.
Ogni tabella che si rispetti possiede pero' una colonna del variabile, che si spera di non dover mai riempire. La mia e' arrivata vuota fino a sabato 27 ottobre, quando mi son alzato con la caviglia dolorante e non riuscivo a poggiare il piede a terra, figurarsi correre. Con il mio fisioterapista e amico Tonio, proviamo inizialmente a curare i sintomi con ghiaccio, riposo e pensiero positivo. Ma il dolore e' insistente e il movimento impossibile, cosi il mio medico decide di provare con la mesoterapia. Unico neo, dover sopportare le infiltrazioni solo con l'antinfiammatorio visto che lidocaina e cortisone costituiscono doping e non c'e' tempo per comunicare all'organizzazione che ne ho fatto uso a scopo terapeutico. Anche senza cortisone, il dolore si riduce notevolmente ma non sapendo come si comporterà la caviglia durante la corsa e soprattutto dopo quanti chilometri si sarebbe fatta sentire, l'unica cosa a cui attaccarsi e' il riposo assoluto fino alla gara e dita incrociate.
Arrivato a New York la caviglia sembra sensibile ad ogni minima discesa, cosi gironzolo sui profili di Central Park dove si snodano i chilometri finali e cerco di studiare i metri in cui probabilmente si sarebbe concentrata la mia agonia. L'effetto e' dopante: l'atmosfera e' magica, l'autunno e' mite e colorato e fa da sfondo a centinaia di runners da tutto il mondo che macinano gli ultimi allenamenti prima della 42K.
Sento l'adrenalina salire, le paure scemare e la voglia di correre crescere. Mi sento su di giri e dimentico di avere una caviglia dolorante o, forse, comincio solo a pensare di poterne fare a meno.
La notte del pregara dormo pochissimo, avevo scelto il trasferimento in traghetto per dormire di più ma alle 3.30 sono gia' sveglio. 

La prima runner che incontro in metropolitana è una ragazza di Kansas City alla sua seconda maratona, parliamo un po' e ci stupiamo di essere i soli con look da runners, ma tempo due fermate il treno si riempie di un fiume multicolore e multietienico venuto da tutto il mondo per realizzare un sogno. 
Arrivo alla partenza del ferry boat alle 6.00, faccio qualche foto e riesco a recuperare parte del sonno perso addormentandomi sulla spalla di un volontario che mi sveglia allo sbarco a Staten Island, prima di salire su un altro bus pronto a trasportarmi alla partenza.
Ecco, la partenza. Quella della maratona di New York e' a Fort Wadsworth, ex area militare ora trasformata in un parco dove si trovano i diversi corrals (tradotto letteralmente "recinti") in cui gli atleti sono divisi per tempi di percorrenza. Ed io, in quel recinto,  mi sento subito come un animale che non vede l'ora di uscire correndo a perdifiato.
Nel corral c'e' tantissima gente, alcuni bevono caffè caldo, altri fanno riscaldamento e i più cercano di riposarsi. Gironzolo, mi cambio e si fanno le 8.30 fino al momento di entrare nella wave. Sono nella prima onda, sento freddo, ma il cielo e' limpidissimo e so che correndo mi passera'. 
Tutti qui mormorano che bisogna partire piano per non scoppiare, ma io taccio e so già che lo split negativo oggi non farà per me. Devo partire più forte del solito, so che con l'antidolorifico ho un'autonomia di poco più di due ore e con il passo che ho in mente sicuramente meno. Si scherza, ci si fa forza a vicenda e in un batter d'occhio è il momento dell' inno, distingui subito i runners americani per il pathos con cui vivono questo momento. 
Tre elicotteri volano bassissimi sulle nostre teste. 
E' un film che ho già visto o forse stanno girando un film e io sono una comparsa. 
Sparo di cannone, si parte. 
Se e' un film, allora voglio esserne il regista.
L'inizio è ostico, siamo tanti e si inizia in salita, quindi correre col mio passo è difficile. Perdo molto tempo a dribblare altri atleti e quando mi trovo sul ponte di Verrazzano, non faccio nemmeno in tempo a percorrerlo che già sento le le urla dei tifosi accompagnare il passaggio dei primi.
Appena arrivo in cima vengo colpito dal tifo festoso, dal calore del pubblico e dal numero di mani tese e non posso fare a meno di portarmi a bordo strada per scambiare qualche cinque volante. Fungono da ricarica, dicono.
Una volta entrati in Brooklyn, tenere un passo costante sui saliscendi è difficile, quindi vado scientemente (o incoscientemente) a un passo più veloce del ritmo gara e quando incrocio un cartello che segna il sesto miglio vengo raggiunto da un gruppetto di runners. Incredulo e stupito individuo un volto noto che mi da una carica improvvisa: e' quello di Re Giorgio (Calcaterra, ndr) che, sorridente come al solito, ha anche l'energia di salutare e complimentarsi con me per il passo. 
Lui, tre volte campione del mondo nella 100km e dodici volte di fila vincitore del Passatore fa i complimenti a me. 
A-me.
Roba che se a quel punto la tua caviglia cede te ne fotti perché sei a un metro da terra e ormai non ti serve più. 

Corro col gruppo per più di dieci chilometri ma dopo il passaggio al diciannovesimo chilometro scelgo di rallentare perché si avvicina il Queensboro Bridge che con i suoi quasi due chilometri di salita rappresenta il punto più critico della gara. L'atmosfera qui è particolare, forse e' l'unico tratto della maratona dove non c'è tifo e non si vede il cielo, coperto dalle arcate del ponte. Rallento molto, ciò nonostante e' il solo tratto in cui sorpasserò molti atleti.
Varcato il ponte si apre Manhattan ed è proprio qui che inizia la gara: mi sento straordinariamente bene, le gambe son rilassate, la frequenza cardiaca bassa, riesco a bere regolarmente e, per ora, la caviglia non protesta. Su queste strade tutte da surfare riesco a mantenere un passo intorno ai 4,00 Min/Km e mi lascio trasportare dal tifo della first Avenue. 
Poco dopo il trentesimo chilometro pero', con un cambio di pendenza, la caviglia inizia a dare fastidio.
Ora, c'è una frase che tutti i maratoneti conoscono e citano spesso: “Una Maratona si corre per 30 km con le gambe, 10 con la testa, 2 col cuore e 195 metri con le lacrime agli occhi”. Il mio pragmatismo non mi ha mai visto troppo concorde con questo aforisma, ma se la gamba sinistra mi sta lasciando – penso - fanculo. Correrò con la testa e finalmente questa frase mi sembrerà sensata.
I ponte che porta nel Bronx fa tornare più insistente il fastidio e appena affronto la discesa verso
Manhattan il fastidio diventa dolore. E' il trentaquattresimo chilometro e mi fermo per la prima volta, bevo con calma e soprattutto stringo di più i lacci, perdendo quasi un minuto. 
Quando riparto un boato mi accompagna e tre spettatori corrono vicino a me per una decina di metri e mentre uno mi urla “See you at the finish line!”Riprendo con un passo poco sotto 4,30 Min/Km (la mia comfort zone) e riesco a reggere anche un chilometro sotto i 4,00 Min/Km ma quando a Central Park la strada riprende a salire il dolore si fa insopportabile e comincio ad alternare corsa e camminata. 

I due chilometri finali nel parco sono tostissimi e quando intravedo Columbus Circle e so che mancano solo 500 metri provo a fare un ultimo sforzo, chiudendo la maratona di New York in 2h58'13”. Il Garmin dice che ho fatto 43 Km (ben 800m accumulati nel cercare traiettorie meno traumatiche per la caviglia) ma io ho la sensazione di averne fatti quasi il doppio. 
Non sono mai stato così stanco, così affamato, così distrutto e contemporaneamente contento.
Mi mettono la medaglia al collo e quando mi viene in mente che per ritirare il mio zaino devo ancora camminare per più di un miglio, ho un momento di panico. Cosi' mi siedo, tiro fuori dal sacchetto del ristoro una mela e penso al nome che avevo dato alla mia tabella: “Addentiamola!”. Non ho centrato il mio obbiettivo cronometrico, ma ci sono riuscito: ho divorato la grande mela. E, neanche a dirlo, il sapore e' di quelli che te ne fanno desiderare ancora, e ancora.
(Nota di colore: Tonio, il mio impagabile fisioterapista che annota spesso le mie misure ha registrato un centimetro di circonferenza in meno sulla mia gamba destra. Quindi, oltre la testa, ci ho messo pure un pezzetto di gamba. Sapevatelo.)

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